“L’alpinismo porta con sé dei rischi, ma anche tutta la bellezza che si nasconde nell’avventura dell’affrontare l’impossibile.” Reinhold Messner
Una frase di un grande alpinista, che forse ci fa comprendere un po’ di più cosa spinge gli uomini a tentare di scalare le montagne.
Ed è con questa riflessione che vorrei scrivere della vicenda accaduta in questi giorni. Ad alcuni forse sarà sfuggita, data la scarsa attenzione dedicatavi dai media italiani., ma una nuova pagina dell’alpinismo himalayano è stata scritta poche ore fa.
Il mondo dell’alpinismo si è unito condividendo la gioia di un salvataggio impossibile e l’angoscia di una terribile tragedia. Quel che rimarrà alla storia sarà l’infinita generosità e l’incredibile coraggio di uomini, che tutti ormai chiamano eroi.
Cosa è successo sul Nanga Parbat
Giovedì scorso, i due alpinisti Elisabeth Revol e Tomek Mackiewicz, mentre scendevano dalla vetta del Nanga Parbat, hanno mandato un SOS: il maltempo in arrivo e le condizioni di salute di Tomek non erano buone e non preludevano nulla di buono. L’alpinista aveva infatti cominciato a soffrire di mal di montagna e la cecità temporanea aveva peggiorato la situazione. Sentito l’allarme, quattro alpinisti polacchi e russi, che stavano scalando il K2 in inverno, hanno deciso di abbandonare la loro montagna e la loro impresa per correre in aiuto dei due.
Un elicottero li ha prelevati dal campo base del K2 per portarli sul Nanga Parbat. Un elicottero che si è potuto alzare in volo grazie al crowdfunding organizzato dalla moglie di Tomek, che in 6 ore è riuscita a raccogliere più di 50 000 euro e in totale ha superato la somma di 110 000 euro.
La squadra dei soccorritori volontari
I quattro hanno subito organizzato l’ascensione: due di loro, Denis Urubko e Adam Bielecki, hanno cercato di raggiungere Elisabeth Revol il prima possibile, mentre i loro compagni Piotr Tomala e Jaroslaw Botor, li hanno assistiti dal campo 1 del Nanga Parbat. Tutto il mondo alpinistico è rimasto in sospeso e in attesa di un miracolo.
Urubko e Bielecki, lasciati a circa 5000 metri di altitudine dai piloti, hanno tentanto di salvare la Revol e, nel farlo, hanno compiuto un’impresa titanica, fuori da ogni aspettativa. Nonostante il Nanga Parbat sia la nona montagna più alta del pianeta (8 126 metri) e sia denominata “la montagna assassina”, sono partiti durante il pomeriggio pakistano di sabato, per arrampicare la temuta parete rocciosa, il Muro Kinshofer, a temperature estreme (circa -40°C) e di notte. La speranza era di recuperare per prima Elisabeth, portarla in salvo, dopodiché decidere come procedere per Tomek.
Di notte, al freddo, in verticale e ad una velocità impressionante hanno arrampicato per quasi 1000 metri in appena 4 ore. Ed è qui che la storia dell’alpinismo può vantare una nuova pagina. Una nuova impresa, impressionante, mentre tragedia e miracolo si stavano intrecciando in un’unica morsa.
Io, come molti altri, abbiamo seguito tutti gli aggiornamenti sul web. Alcune pagine online hanno subìto un sovraccarico, tanto da dover annunciare gli aggiornamenti su Facebook. Un social network, ormai imprescindibile dalle nostre vite, che ha dimostrato il suo enorme potenziale.
E così, i due alpinisti sono riusciti, mentre il mondo li innalzava a eroi, a portare in salvo la Revol, che aveva proseguito la sua discesa. Tomek, invece, è rimasto a 7200 metri, impossibilitato a proseguire viste le condizioni di salute e, chissà, speranzoso nelle operazioni di salvataggio. Recuperata Elisabeth, i soccorsi hanno dovuto abbandonare l’idea di tentare di raggiungere l’alpinista. Le condizioni meteo avverse, la quota più alta rispetto a quella a cui si trovava Elisabeth Revol, il rischio per le vite dei quattro soccorritori, così come le sopraggiunte gravi condizioni di salute di Tomek, sono stati i fattori che hanno portato a questa triste decisione.
Una decisione temuta da tutti, rispettata dai più, difficile da accettare quando non si sa come sia trovarsi realmente lassù.
L’essenza dell’alpinismo
Certo è che l’alpinismo è pieno di contraddizioni, pieno di opere grandiose di generosità. Ma è anche una disciplina sportiva, uno stile di vita, che ha un codice duro e difficile da accettare eticamente. La sopravvivenza si fa motore delle decisioni più drammatiche, che mai si penserebbe esser capaci di prendere.
Credo che ognuno viva la montagna come crede. Non giudico le scelte di alpinisti esperti. Le montagne himalayane sono i più grandi colossi della Terra. Noi, “non siamo che un battito di ciglia tra due eternità” (Joe Simpson, Il richiamo del Silenzio)
E per capire appieno cosa spinge gli uomini ad tentare l’impossibile non c’è modo migliore che usando le loro stesse parole:
“L’essenza della bellezza si apprezza appieno solo nei contrasti. Il suono di un orologio che batte l’ora esiste solo grazie al silenzio che l’ha preceduto. La musica è intessuta per metà di silenzi, per metà di suoni.
Le montagne sono sempre state la mia metà di silenzio. La pace e la bellezza della valle non significavano nulla per me senza la cupa, minacciosa presenza della parete che la sovrastava. […]
Questa è per me l’essenza dell’alpinismo: esito incerto, spirito soggiogato, sfida aperta. In altre parole: una libera scelta, a cui dire di sì o a cui sottrarsi. Ma soprattutto l’alpinismo consiste nell’essere là e nel fare: riuscire o fallire non contano nulla. Conta solo la scelta di fare ciò che si fa.
Aleggia su quella montagna il richiamo del silenzio che è proprio delle grandi vette, un canto di sirena che mi attira mio malgrado.”
Joe Simpson, Il richiamo del Silenzio
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